Di come la dama del lago Viviana prese d’assedio Babele

Viviana: con questo nome è talvolta nota la Dama del Lago che allevò Lancillotto, orfano di padre per azione (indiretta) di Claudàs. Due precisazioni: il famoso lago in fondo al quale stava il castello fatato della Dama era in realtà un incantamento che rivestiva una piccola valle, dando l’idea che ci fosse uno specchio d’acqua dove di acqua non c’era neanche una goccia; i poteri di Viviana derivavano da Merlino, perdutamente innamorato dell’intraprendente donzella, che si fece insegnare, tra le varie magie, anche un incantesimo per rinchiudere chiunque in un luogo senza possibilità di fuga: una grotta, o, in certe versioni, persino un albero. Inutile dire su chi Viviana, una volta raggiunta la piena indipendenza nelle arti magiche, usò questa stregoneria.

“Passa il pensier sì come il sole in vetro”
Francesco Petrarca, Trionfi I

Dall’alto giardino, magnifico
recinto di merli sui muri e sui fusti di mandorlo,
dando l’ombra a una spelonca, incavo
che alloggia in un calice, ricco bacino
di pietre preziose che brillano stando sott’acqua,
sei visibile intanto che passi
lo schermo trasparente del lago,
senza alzare una goccia,
senza muovere un’onda che fa una catena di anelli.

Se credi l’angelo farci
rialzare, sollevare, sali
le terrazze dell’orto conchiuso
dove ti passi le dita per la schiena,
mi innesti il tuo midollo nella vertebra e la sfili,
ci fai come un monocolo, da cui mi guardi
i denti farsi rami e poi piantarsi sul torace.
L’osso cavo spazia il parco e irraggia
la mia forma fissa in una sfera
un cespo secco del deserto, lo scirocco
che lo ruota dall’orto alle dune,
che segui stando stretta al cannocchiale
dove si serra una lente convessa,
un intreccio di calce e di globuli rossi
da cui lo sguardo passa,
lungo il vetro, come il pensiero
che lascia il cranio andando incontro ad altra luce.

San Prescazio e il Cristosauro

Cristosauro: nuovo fossile riassemblato da San Prescazio: la sua forma ricorda una croce. Questo bizzarro
serpentello alato (la cui esistenza è tanto dubbia quanto quella del suo “scopritore”) è valso a San Prescazio
il patronato sui paleontologi, noti per un certa dose di cialtroneria e visione fuori dagli schemi indispensabili
quando c’è bisogno di mettere insieme vari frammenti d’osso di insensate dimensioni.

 

“ma il giuoco è reciproco, tu pure sei fragile
e polvere […]”
Angelo Maria Ripellino, Sinfonietta

San Prescazio allunga le falangi
che fanno pochi scoppi
insieme al resto
dello scheletro.
Tanto tempo stando fermo
lascia tempo a qualche antenna per mutargli
l’apparato dei polmoni in alveare;
le vipere che fanno un nido di spire
di uova, da gola a caviglie.

Scava allora dalla fossa,

trattiene le ossicina di serpenti
e mentre cerca nel petto
la cera di vespe nascoste
le incolla alla colonna vertebrale di un cerasta.
Quanta grazia, quanto spreco,
dare sempre, ad ogni costo,
ad ogni cosa un paio d’ali.

 

 

San Simone da Maranzano e le sette vergini del cestello

Una volta San Simone, vedendo il gregge incustodito di un pastore cristiano in procinto di essere attaccato da un branco di lupi molto affamati, chiese loro di aspettare ancora un po’, perché presto sarebbero stati nutriti dal Signore senza danneggiare nessuno dei Suoi fedeli. I lupi intesero le parole del santo e ne furono grandemente persuasi, così si sedettero e rimasero ancora un po’ in attesa. Era quello il tempo delle persecuzioni, quando regnava l’imperatore Silbanacco, ed essendo allora il cristianesimo ancora giovane e bisognoso di grandi dimostrazioni per rendersi noto in tutte le terre e presso tutte le genti, i miracoli erano molto frequenti, abbondanti e stupefacenti. Ecco che subito arrivò un centurione romano, con un manipolo di legionari feroci che odiavano molto i cristiani.

Fernando Pessoa, VIII Sonetto, maschere e sottomaschere: una traduzione

Data la pervasiva presenza online di una sola traduzione italiana di questo sonetto inglese di Pessoa (si trova anche qui https://www.cultura.trentino.it/Approfondimenti/Quante-maschere-e-sottomaschere-noi-indossiamo) che presenta qualche svista (“countenance”, letterario per volto, espressione, che diventa un “contenitore” e “thought” che diventa soggetto dell’ultimo verso, nonostante “itself” e le virgole dimostrino che il soggetto sia sempre l’anima del cui mascheramento si è trattato nel resto del componimento) riporto una mia traduzione con testo a fronte, che cerca una maggiore armionia fra suono e senso, forma e contenitore.  Ecco il testo originale:

How many masks wear we, and undermasks,
Upon our countenance of soul, and when,
If for self-sport the soul itself unmasks,
Knows it the last mask off and the face plain?
The true mask feels no inside to the mask
But looks out of the mask by co-masked eyes.
Whatever consciousness begins the task
The task’s accepted use to sleepness ties.
Like a child frighted by its mirrored faces,
Our souls, that children are, being thought-losing,
Foist otherness upon their seen grimaces
And get a whole world on their forgot causing;
And, when a thought would unmask our soul’s masking,
Itself goes not unmasked to the unmasking.

Ecco la mia versione:

Noi quante maschere indossiamo, e sottomaschere,
sul nostro volto d’anima, e quando,
se per diletto l’anima stessa si smaschera,
saprà levata l’ultima maschera e il viso franco?
La vera maschera non sente l’interno di maschera,
ma guarda dalla maschera con occhi commascherati.
Qualunque la coscienza che inizi l’opera,
l’uso retto dell’opera e la sonnolenza sono legati.
Come un bimbo impaurito da suoi visi riflessi,
le nostre anime, che bimbi sono, in quanto distratte,
impongono un’alterità alle loro note smorfie
e ne hanno un mondo intero di loro scordata causa.
E, non appena un pensiero smaschererebbe l’anima e il mascheramento,
Lei stessa arriva smascherata allo smascheramento.

 

Un altro tentativo, un’altra possibilità.

Mikel Marini Doughty

Sogno di Nabonide, ultimo re di Babilonia

Quando sono nel sonno
mi conduci, la notte,
fino alla fine del mondo.
Ho vissuto in un fiore,
una tenda di petali
per evitare il tuo nome.
Ma tu, che sveli gli stami,
che sfogli la mia preziosa
dolcezza che dietro ti lasci:
e deopongo la mia corolla
come fa un gran re del deserto
dalla sua reggia di terracotta,
che serrando le porte del regno
fa un cenno verso le carovane
e sulla sabbia poi posa lo scettro.

Appendice, I (da “La Prospettiva Nettuno”)

Ignaro del tempo che più non scorreva
giunge Antidio alla terra isolata,
l’estremo confine per gli imperatori,
che solo fu invasa dai suoi fondatori,
pirati, normanni, nel cuore i tesori
e toccare la costa agognata.
Sui pascoli curvi lui conta i suoi passi
e la sete che preme ristora
con l’ultimo ghiaccio riposto in saccoccia:
riarsa ha la lingua, non tocca una goccia,
c’è qualcosa nel suolo e lo fora.
In mezzo alla pioggia di immensi detriti
verdeggianti le zolle divelte
non fanno da ostacolo a chi le attraversa
dal basso: e dal fianco che fugge la destra
un rosso dragone di fiamma perversa
smuove in cielo con ali più svelte
del vento indifese le povere nuvole;
dalle fauci gettò l’urlo atroce:
“Fi yw’r ffrwydrad sy’n symud yr affwys dwfn!”

Atto V, Scena I: La sposa (da “La Prospettiva Nettuno”)

Ricordo che mio nonno raccontava
che quando la condussero a Nettuno
Beroe portava in testa
allacciato sotto il collo, per le anse,
un lucidissimo sacchetto, plastica,
sfornato fresco fresco da qualche ipercoop.

Stava lì e le celava l’aspetto,
non si vedeva oltre il velo;
preferiva portare il riflesso
delle offerte e dei doni di nozze,
l’ambra radiosa e i gioielli,
una pelle di foca sul letto.

Ma con la punta del tridente il Dio
ci aprì uno squarcio e ne cercò lo sguardo.

Ho scelto la mia sposa,
l’ho gettata in mezzo alle correnti
che la potessero condurre fino a me.
Tu non ti preoccupare,
lascia cadere il pettine,
non sarai più ctenòfora:
c’è un bacio dall’abisso
che della tua poltiglia ha fatto pietra.

Atto IV, Scena I: Antidio e Cornesto (da “La Prospettiva Nettuno”)

Ant: era così dolce il vino di mio padre. Lo avevo tratto dai suoi tralicci col taglio della spada, ed i suoi grani fermentavano come nella preghiera-

Cor: lo consumaste caldo? Cosa non darei per una sola stilla dalla coppa di quell’elisir bollente-

Ant: lo conservavamo al buio delle sue cantine… era così fresco quando lo versavamo nel suo cantare dorato-

Cor: ah, come accoglierebbe col sudore la mia gola quel tuo sangue caldo e le sue vampe… Racconta ancora-

Ant: talvolta ci lasciava a noi bambini pendere con le labbra dall’ampolla oscura, e ricevevamo il lento morso del vino freddo che scivola dentro le viscere con un tremito, e ci obbligava a piegarci con la fronte fino al suolo e tracciare anelli col segno dei capelli sulla polvere-

Cor: di certo era tuo padre un grande re della tua terra… ma non so più che cosa sia una terra… conosco quel che dovrebbe essere, te la potrei raccontare ed incidere tutta sulla punta più sporgente di questa superficie gelida… e non so cos’è-

Atto III, Scena III: Medusilla (da “La Prospettiva Nettuno”)

Bianco-arancio e immortale
vagheggia per l’oceano perso
un occhio, la medusa,
che non si cura a galla
se non delle correnti, e forse un po’ di sale.

È questa la tua rosa,
dalle sottili e lunghe spine,
che viaggia tra molecole
e che ammiri tra le onde,
perché una palpebra serrata è sempre bella,

la vedi che si gonfia
e ruota inerme in fase rem,
e trepidante sai
che anche a te ora spetta
un battito di ciglia, il più urticante.

Atto I, Scena I: Antìdio (protagonista de “La Prospettiva Nettuno”)

Tornavo zitto
trascorsa l’ora dell’aperitivo
dal mio lavoro passando dal parco
in bicicletta scattante e giulivo
per il sentiero sotto i rami ad arco,
spogli e notturni, e, giuro, non sentivo
gravarmi in petto alcun pesante carco,
e pedalavo sulla mia saetta
a capofitto, come da una vetta:
e quello fu il momento alla sciagura.

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