Atto I, Scena I: Cornesto (personaggio da “La Prospettiva Nettuno”)

Or senti Antidio quali dolcezze
riserba all’uomo la ninfa?
Sappi che si mostra assai scontrosa
per il fatto che nacque per essere
vinta dagli amanti
solo più eccellenti:
così i deboli scoraggia
con la sua fuga che invece avvince
i forti, e se coi rifiuti
i timidi fa desistere,
i bei arditi intanto sprona
acciò che il meritato frutto colgano!
Così è questa la natura
della prova che ti pone
tra le mani la Natura.
Oh, mio amico!
Per questo godo assai del tuo stato,
pregusto grande in te
il piacer della vittoria!

Atto II, Scena I: Dusillo (personaggio da “La Prospettiva Nettuno”)

Quanto son rassicurato
ed anche rammaricato
da queste tue verità!
Mi rasserena ricordare
che male nessuno mi ordisce
il mio prode signore, ma
muoio se penso
alle sue eretiche
così indomabili,
che mai e mai cambieranno,
adepte dell’errore
che danna lor le anime.

Atto II, Scena I: Martello (personaggio da “La prospettiva Nettuno)

Sei uno sciocco,
doppiamente! Basta dolersi, è il tempo
di godere!
Quelle malvagie ci hanno ferito
di strali,
e amorosi,
scagliati per l’arco delle ciglia
con ogni battito, e a noi morenti in pena
negano
l’unico antidoto per quel tosco in cui li hanno
imbevuti!
Ah, guarda le marrane
mascheratesi altezzose,
che s’inventan mille mode
per far di più amanti strage!
Oh, come godono di non godere
mentre fingono di voler godere
sia nelle forme che nel sembiante
che si fanno così altezzose!
Odi, Parco!
Marca le mie parole, dico: è un reato
la beltà,
e dunque è giusto che una ninfa si pieghi
agli ordini d’amore fatta tutta
una penitente:
mille colpe ha da espiare
in una volta
fra le forti braccia di un virtuoso amante:
e trovo assai virtuose le mie mani,
irsute e assai villose,
e tanto più virtuose ancora
caprine le zampe nostre.

Atto I, Scena III: Perla (personaggio da “La Prospettiva Nettuno)”

Eccomi, mio adorato padrone!
Accordavo la lira in canzone,
e allegra suonavo con le mie compagne
che in odio han le selve e in amor le campagne,
e di quest’aria mattutina e rada
cogliea Bufina la prima rugiada
col primo incanto
ch’è il suo bel canto,
quando udii il tuo fischio sicuro
me chiamar sonante oltre il muro
della siepe e attraverso ogni arbusto
per quel gioco che più è di mio gusto.
Ah come, quella sciocca,
che mai non si balocca
e se ne sta orgogliosa
sola in parte ritrosa,
strinse i denti e serrò i pugni gelosia
quando vide che lasciai la compagnia
delle ninfe di corsa e assai di fretta
tanto ero punta da amor che saetta:
bruciar mi fece tutto il fiato
per esserti qui d’immediato.
Ahi, che gran pena!
Non sarà piena
mai di quel piacere
che ci fa leggere
anche quando un corpo grava
nella nostra forma cava?
Conoscerà mai tutto questo
che mi hai insegnato tu, Cornesto?

Atto II, Scena V: Il Coro di ninfe domate (da “La Prospettiva Nettuno”)

Ci rende così grate
sapere e poter dire:
non abbiamo fatto niente,
non c’è nulla che abbiamo inventato.
Siamo capaci di ricevere
i doni che a altri doni si susseguono,
con l’iride che scatta
e guarda a destra e a manca e non decide,
perché muovendosi cancella in una macchia
fuori fuoco il mondo;
e poi ritorna, come sempre fa.
Noi non lasciamo che si posi
più avanti di un secondo il desiderio:
mi guida quando penso
una mano sulla nuca
che mi carezza e stringe,
e orienta la mia fronte
con le pupille immobili
che altro non conoscono
se non la linea retta.
Ma tu che guardi invece a lungo nel dolore, dimmi:
il male esiste ancora?

Impressione di una spiaggia

Un bambino gigante legge un fumetto, altrettanto colossale, dal titolo di “Paperone”. L’omonimo papero è raffigurato sulla copertina dell’albo. A destra del bambino, appoggiata su un angolo di roccia, un’elica sembra osservare la lunga fila di persone che aspetta il proprio turno per entrare in quello che sembrerebbe essere un museo, stando all’insegna sull’ingresso. Enormi lettere maiuscole di colore nero fluttuano pigramente nella scena. Una “T” si posa dolcemente sopra l’elica, mentre un “S” e una “I” si avvicinano al fumetto, come se volessero leggerlo anche loro. SI… fumetto… fumettosi? No, troppo stupido. Mentre rifletto vedo che in mezzo alla coda si sono intrufolate una “N” e un “E”. Ne…fila…filat…elica…FILA-T-ELICA! Filatelica! 4…8…10!10! Ancora una parola e ho finito! Annoto rapidamente la parola “filatelica”, preceduta da un vistoso punto interrogativo, sul bordo della pagina. Osservo la figura per due minuti, la penna in mano, in attesa che le lettere e le figure acquisiscano un senso. Niente. Di questo passo non carpirò mai il segreto di Paperone e del bambino.

Vermilli, la prima discepola

Che miri questa forbice?
Non vedi ch’ella ignora le tue preci
e si scandisce in due per cinque o dieci?

Quando ripenso a te, mio buon maestro,
ai semi che gettasti
nel cuore del giardino, al lato destro,
con i suoi fior che ha guasti:
che pianto! Poichè temo che non basti
la rossa debolezza agli occhi bieci
che cercan le malerbe, le tue veci.

Che miri questa forbice?
Non vedi ch’ella ignora le tue preci
e si scandisce in due per cinque o dieci?

 

 

Tratto da “Il quadrato a cinque angoli” di Mikel Marini

Educazione onirica

Dovete sapere che a volte mi capita di prendere l’aereo. Pur non trattandosi di un’impresa particolarmente complicata, trascurando il prezzo del biglietto, nel mettere piede sul velivolo ciascuno si trova puntualmente costretto ad affrontare il proprio momento critico, una situazione che non cessa mai di mettere in difficoltà il passeggero di turno. Per alcuni il decollo dell’aeroplano può essere il fattore scatenante di una breve crisi di pianto, per altri è l’atterraggio ad tramutarsi in un’esperienza snervante, mentre altri ancora potrebbero vacillare ogniqualvolta si dovessero ritrovare  nelle condizioni che li costringerebbero a visitare la toilette di bordo. Nel mio caso specifico, la grande sfida è trovare il posto a sedere comunicatomi all’acquisto del biglietto, sul quale risulta chiaramente indicato. Nonostante questo, fino all’ultimo secondo mi ritrovo a mio malgrado divorato dal dubbio di aver inavvertitamente occupato il posto che sarebbe spettato di diritto ad un ignaro passeggero, il quale, trovando la propria poltrona conquistata da un perfetto sconosciuto e non avendo intenzione di compiere lo sforzo di far notare il malinteso, potrebbe attribuire la colpa dell’intera situazione alla sua distrazione, accomodandosi così in un altro sedile dal numero simile a quello originariamente assegnatoli,  e scatenando così una devastante reazione a catena che si concluderebbe solamente nel momento in cui un indignato passeggero dovesse reclamare la legittima poltroncina. L’intera catena verrebbe dunque ripercorsa, in senso opposto questa volta, con un continuo crescendo della folla inferocita costretta ad alzarsi per cedere il posto a sedere, divenendo sempre più numerosa e desiderosa di individuare il responsabile di questa catastrofe logistica: in questo caso il sottoscritto, beatamente ignaro di tutto sino all’arrivo del furioso energumeno di turno.

 

I corvi di Aplerbeck

I corvi di Aplerbeck
rendono il grigiore del cielo
una realtà dinamica
che il mio occhio non può
cogliere:
immagino le penne fradicie,
segno del temporale
intravisto dalla finestra. Era
rigata da gocce
di una pioggia
oltre mondo,
trasparente eppure
concretamente sconcertante.
Mi par quasi di conoscere
i tic nervosi
colli
piumati
che ripetendo
e riparando
voltano
lesti
il loro proprio
capo.

In realtà
vedo solo
dei forse-corvi
appollaiati sul filo telefonico
che s’azzuffano, almeno credo,
si chiamano, questo mi pare d’udire,
si spostano, deduco malamente,
defecano, così sembra,
stanno fermi, ma staranno poi realmente fermi?

Sono un albero dopo il temporale:
nel cielo un arcobaleno,
ma dalle mie foglie
piovono ancora cascate
frammentate
di pensieri e sensazioni.

Evaporano con troppa leggerezza,
unendosi al fumo del comignolo
ascendono ad un cielo
a cui non appartengo.

I corvi di Aplerbeck,
colpevoli e testimoni,
e forse anche vittime,
presenziano al processo
contro la mia testa vuota
che il collo
di tic
un po’ nervosi
precariamente volta.

Mi rivedo nel passero che fugge
alla vista di questi
piumati servitori d’Odino:
ed anche io voglio sfuggire
al suo unico occhio
in cui tutto vede
perché tutto è già visto,
che pesantemente ammorba
quest’opaca mattinata.
Eppure non me la sento
di dar la colpa
ai corvi di Aplerbeck.

 

 

Mikel Marini

Per l’immortalità (una estrema applicazione del pensiero di Luigi Pirandello)

In passato si è già parlato di un contrasto fra “Vita e Forma” che sembra attraversare l’intera produzione letteraria di Luigi Pirandello; Tilgher aveva individuato questo dramma di sottofondo ben prima della concezione e pubblicazione dell’ultima produzione pirandelliana, ed è forse questo anticipo sui tempi ad aver  originato l’imprecisione che pur poco toglie ad una simile intuizione. Dopotutto, l’idea stessa di forma si colloca nel contesto di una dicotomia forma-materia, che porta ad una scomoda convivenza e vicendevole supporto fra i due enti. Forma è, essenzialmente, distinzione nella materia, la quale è a sua volta un ente
a-categorico, più unito dell’unità, se mi si concede la suggestiva “sofistata”. Di per sé’ la materia è mistero puro, noumeno, e di certo non è né viva né morta: distinguere in essa la vita e la morte presuppone già l’impiego di una forma della razionale percezione umana, il preponderante approccio di conoscenza di cui disponiamo. E’ per questo che parlare di un contrasto fra “Vita e Forma” (da notare la lettera maiuscola impiegata per entrambi i termini: la materia è tutto fuorchè Maiuscola) in un ambito diverso da quello della forma che smaschera sé stessa non è del tutto esatto: lungi da me l’affermare che una simile questione non sia presente nelle pagine scritte da Pirandello, anzi. Ma non si tratta dell’argomento di cui ho intenzione di trattare adesso. Per il nostro percorso occorre fissare, nei limiti del possibile, un porto sicuro a cui poter tornare per un confronto produttivo al termine di ciascuna delle quattro tappe che presto affronteremo: il contrasto fra materia e forma sarà il nostro punto di partenza e la rotta da tenere sempre a mente.

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