Categoria: Racconti

San Simone da Maranzano e le sette vergini del cestello

Una volta San Simone, vedendo il gregge incustodito di un pastore cristiano in procinto di essere attaccato da un branco di lupi molto affamati, chiese loro di aspettare ancora un po’, perché presto sarebbero stati nutriti dal Signore senza danneggiare nessuno dei Suoi fedeli. I lupi intesero le parole del santo e ne furono grandemente persuasi, così si sedettero e rimasero ancora un po’ in attesa. Era quello il tempo delle persecuzioni, quando regnava l’imperatore Silbanacco, ed essendo allora il cristianesimo ancora giovane e bisognoso di grandi dimostrazioni per rendersi noto in tutte le terre e presso tutte le genti, i miracoli erano molto frequenti, abbondanti e stupefacenti. Ecco che subito arrivò un centurione romano, con un manipolo di legionari feroci che odiavano molto i cristiani.

Atto IV, Scena I: Antidio e Cornesto (da “La Prospettiva Nettuno”)

Ant: era così dolce il vino di mio padre. Lo avevo tratto dai suoi tralicci col taglio della spada, ed i suoi grani fermentavano come nella preghiera-

Cor: lo consumaste caldo? Cosa non darei per una sola stilla dalla coppa di quell’elisir bollente-

Ant: lo conservavamo al buio delle sue cantine… era così fresco quando lo versavamo nel suo cantare dorato-

Cor: ah, come accoglierebbe col sudore la mia gola quel tuo sangue caldo e le sue vampe… Racconta ancora-

Ant: talvolta ci lasciava a noi bambini pendere con le labbra dall’ampolla oscura, e ricevevamo il lento morso del vino freddo che scivola dentro le viscere con un tremito, e ci obbligava a piegarci con la fronte fino al suolo e tracciare anelli col segno dei capelli sulla polvere-

Cor: di certo era tuo padre un grande re della tua terra… ma non so più che cosa sia una terra… conosco quel che dovrebbe essere, te la potrei raccontare ed incidere tutta sulla punta più sporgente di questa superficie gelida… e non so cos’è-

Impressione di una spiaggia

Un bambino gigante legge un fumetto, altrettanto colossale, dal titolo di “Paperone”. L’omonimo papero è raffigurato sulla copertina dell’albo. A destra del bambino, appoggiata su un angolo di roccia, un’elica sembra osservare la lunga fila di persone che aspetta il proprio turno per entrare in quello che sembrerebbe essere un museo, stando all’insegna sull’ingresso. Enormi lettere maiuscole di colore nero fluttuano pigramente nella scena. Una “T” si posa dolcemente sopra l’elica, mentre un “S” e una “I” si avvicinano al fumetto, come se volessero leggerlo anche loro. SI… fumetto… fumettosi? No, troppo stupido. Mentre rifletto vedo che in mezzo alla coda si sono intrufolate una “N” e un “E”. Ne…fila…filat…elica…FILA-T-ELICA! Filatelica! 4…8…10!10! Ancora una parola e ho finito! Annoto rapidamente la parola “filatelica”, preceduta da un vistoso punto interrogativo, sul bordo della pagina. Osservo la figura per due minuti, la penna in mano, in attesa che le lettere e le figure acquisiscano un senso. Niente. Di questo passo non carpirò mai il segreto di Paperone e del bambino.

Dialogo tra Ulisse ed uno Spirito

Ulisse stava sedendo a poppa della sua barca, non distante dal timone, il suo fedele legnoso compagno di tempeste. Era notte inoltrata, quasi mattino. Il mare era calmo, il cielo stellato, la luna calante. Ulisse parlava alle stelle che, naturalmente, non possono sentirlo e mai potranno; era fiato sprecato, la sua voce stava solamente disperdendosi nell’aria, ma uno spirito vagante la riconobbe.
Spirito: Questa voce è oceano nelle mie orecchie… Ulisse, marinaio solitario, sei tu?
Ulisse: Così mi chiamano gli uomini, e così gli Dei e il cielo mi conoscono, sì sono Ulisse.
Spirito: Non dormi, Ulisse?
Ulisse: No, spirito, non dormo.
Spirito: E dove vai, glorioso Ulisse?
Gli occhi dell’uomo sorrisero malinconicamente e, lentamente, egli rispose:

Voci

C’è un tizio che parla nell’appartamento accanto, sta praticamente urlando. Maledizione, è tutta la mattina che sbraita! Le sue parole sono indecifrabili, il suono ovattato dal mezzo metro di muro che separa le due stanze.

Seduto al tavolo della cucina continuo a sentirlo blaterare. Il suo parlare isterico mi sta entrando in testa come un tarlo. Intanto, davanti a me il mio coinquilino parla al telefono. La sua furia è possibilmente più intensa e cresce ogni momento. Provo a tendere l’orecchio cercando di comprendere quello che sta dicendo. Dovrei essere preoccupato, ma in realtà sono solo curioso.

Fingo di ascoltare il mio coinquilino che, riappesa la cornetta, compone le parole con le mani.

Lorenzo Cavazza

 

Fran

Fran. Qualcosa che accade all’improvviso e non ti aspetti. Qualcosa che ti lascia senza fiato facendoti boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Qualcosa che fino a quel momento c’era e poi scompare, così, senza una ragione. È una certezza che si trasforma in dubbio, una giornata di sole che viene coperta da una densa massa di nebbia impedendoti di vedere poco più avanti del tuo naso.

Fran. Come quando vedi tuo padre su un letto d’ospedale e non sai a cosa pensare.

Ero piccola a quel tempo, ma non lo scorderò mai. Le calde giornate di luglio 2010 sembrano palpabili nei miei ricordi: la gente che stava male al solo pensiero di uscire di casa e noi bambini che non riuscivamo a stare fermi nonostante l’afa asfissiante. Tuttavia, io e la mia famiglia ci stavamo godendo l’estate nella solita casa in affitto di Cattolica. E non c’era nulla che non andasse, voglio dire, le cose procedevano come sempre: io, mamma, papà, i nonni e la spiaggia. Il solito.

Però qualcosa era cambiato: mio padre non era lo stesso, stava male e per quanto fossi stata sveglia non riuscivo a capirlo. Ricordo solo che un giorno abbiamo ricevuto una chiamata dall’ospedale e siamo partiti in fretta e furia, avevo ancora il costume indosso quando ero salita in macchina. Qualche giorno dopo mia madre mi ha letteralmente scaricato dalla nonna e sarò rimasta in casa sua per circa una settimana. Sentivo tutte le mattine mia madre, ma per me era troppo poco. Mi chiedevo cosa stesse succedendo, ingenuamente pensavo che avessi combinato qualcosa di sbagliato e che mi avessero lasciato lì apposta, ma non potevo sapere che mio padre era in pericolo di vita e che mia madre cercava di stargli il più vicino possibile. Poi finalmente la mamma è ritornata e insieme siamo andate da papà. Mi sono spaventata quando sono entrata in ospedale, non perché pensassi che fosse successo qualcosa di serio, ma perché gli ospedali non mi sono mai piaciuti. Ed è stato quando ho visto mio padre su quel maledetto letto che il mondo mi è cascato addosso. Fran. Il volto dolorante, la flebo attaccata al braccio, la tendina di quell’orrendo verde acqua che separava i letti dei pazienti. Fran. Sono rimasta ferma per qualche minuto. Attonita. Non sapevo cosa pensare.

Sono andata ad abbracciare mio padre ed ho iniziato a fare domande. “Calcolo renale…” mi hanno detto. Per me erano ancora dei paroloni, ma avevo capito che c’era qualcosa di più grave. Fran. Lui, che è sempre stato il mio eroe, grande e forte, lì, pallido e debole a patire su un letto d’ospedale. Ma quando sentivo che il mio cuore stava per scoppiare, mia madre mi ha detto che era già tutto finito, papà era già stato operato ed era guarito. Piangevo. Non saprei dire se per la gioia che tutto si fosse risolto o se per la tristezza di vedere mio padre sofferente, ma per quanto fossi stata piccola, il fran si era fatto sentire, e non poco.

 

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