Ignaro del tempo che più non scorreva
giunge Antidio alla terra isolata,
l’estremo confine per gli imperatori,
che solo fu invasa dai suoi fondatori,
pirati, normanni, nel cuore i tesori
e toccare la costa agognata.
Sui pascoli curvi lui conta i suoi passi
e la sete che preme ristora
con l’ultimo ghiaccio riposto in saccoccia:
riarsa ha la lingua, non tocca una goccia,
c’è qualcosa nel suolo e lo fora.
In mezzo alla pioggia di immensi detriti
verdeggianti le zolle divelte
non fanno da ostacolo a chi le attraversa
dal basso: e dal fianco che fugge la destra
un rosso dragone di fiamma perversa
smuove in cielo con ali più svelte
del vento indifese le povere nuvole;
dalle fauci gettò l’urlo atroce:
“Fi yw’r ffrwydrad sy’n symud yr affwys dwfn!”
Mentre il grido echeggia lontano ed altrove
di spalle ad Antidio si oscura anche il sole:
gigantesca si leva feroce
quadrupede un’orsa dall’occhio tremendo
che risplende sul candido pelo
macchiato soltanto da tutta la terra
strappata al terreno, e vestito da guerra,
in groppa alla sella, i fianchi le serra
lì stagliato di contro al bel cielo
l’orgoglioso duca, il primo di Wellington,
con la croce che porta sul petto
e in mezzo alle mani, alzate all’insù,
lucente il Vangelo che è sacro a Gesù,
e col tuono in gola romba: “Before you
stands a proud ambassador of deserts”
“Перед Вами стоит гордый посол пустынь”
gli fa l’eco stringendo i suoi denti
la cavalcatura, nel sole i bottoni
del busto che ruota e mostra i galloni
accendono il duca in bagliori arancioni
poderosi, così intermittenti.
Il drago rivela le zanne di fuoco,
col ruggito selvaggio del mostro
la cavalcatura dell’antico Wellington
punta il gelataio percorso da un tremito,
muove le mascelle un morso frenetico,
gli sconvolge l’aspetto del rostro.
Ma ecco: un nuovo tumulto alzato tra le pietre
forte, esplode, rilascia la polvere
vecchia come vecchi son fatti i millenni,
e un’ombra dal fumo e da canti solenni
è accolta e dal suono delle asce bipenni
che nessuno ha potuto distogliere
dalla lotta al tempo e alle sue foreste
di vecchissimo sasso ed opaco,
e in mezzo al fragore di armate invisibili
si esalta potente con occhi di fulmini
il nobile e antico signore dei fossili:
nel deserto, lì c’è Carataco.
Antidio rivolge lo sguardo atterrito
al gran maglio che impugna il sovrano,
lo scudo che avverso fu all’imperatore,
che fu la difesa nel tempo peggiore
ai prodi Ordovici: così il loro onore
lui salvò con l’ampissima mano.
Carataco scuote i capelli di polvere
e disperde un gran mare di sabbia:
se all’orsa e a se stessa il gran duca protegge
col mantello gli occhi dalle mille schegge
minuscole; il drago quel danno non regge,
si ritrova accecato: la rabbia
gli scuote impotente il capo cornuto,
ed intanto, nel mentre che rugge,
Carataco ha colto quel fatale sbaglio,
e con un gran salto gli schianta il suo maglio
tra i corni ritorti: prima una spiraglio
si spalanca nel cranio del bruto;
poi tutte le scaglie rossastre gli cascano
come fanno le foglie già secche
se viene l’autunno per un misero arbusto,
si scopre la pelle del corpo robusto.
È viscida e molle, fa solo disgusto,
è indifesa, e il dragone non geme;
il colpo del re lo priva del teschio
che precipita lungi e scompare
infine alla vista. Il corpo barcolla
ignaro e vermiglio, la vita non molla,
la perde ed a terra inerte infine crolla,
e diventa una zolla carnosa.

 

Mikel Marini